Il reciproco del Faro

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..il destino si forma nel vuoto, in virtù delle stesse leggi complementari
che presiedono al nascere della poesia:
l’astensione e l’accumulo.
La parola che dovrà prendere corpo in quella cavità, non è nostra.
A noi non spetta altro che attendere nel paziente deserto,
nutrendoci di miele e di locuste…
( Cristina Campo, Gli Imperdonabili )

 

Per me, negli anni, l’esperienza della relazione come aiuto1 ha assunto sempre più la fisionomia della “radura” ( per usare un termine caro ad Heiddeger ). In questo luogo la persona adulta che vi arriva, costruisce assieme al counsellor un “reticolo di significati” a partire proprio da una reciprocità significante, che diventa esso stessa guida, verso un cammino di consapevolezza sulle situazioni problematiche e disadattive. La metafora boschiva della “radura” (Lichtung) allude il venire- alla-luce a partire da un’oscurità irriducibile che ci circonda, ci nasconde e ci protegge.

La verità secondo Heidegger, non è infatti qualcosa che si coglie in piena luce ( dal tedesco, Licht, luce ), anzi è proprio ciò che si coglie dal gioco fra oscurità e chiarezza, nascondimento e disvelamento2. La radura è simbolicamente anche luogo di riposo, dove arrivano e dipartono i sentieri, luogo della quiete, ed anche luogo sacro ( da locus= boschetto sacro), alludendo con ciò alla essenziale erraticità del pensiero e agli interminabili percorsi verso la verità. L’originalità del concetto di Lichtung/Radura, consiste quindi nel «far coincidere l’oggetto della ricerca con il modo del cercare» (Rovatti, 1989)3. L’attitudine è quella dell’esploratore di mondi possibili, colui che co-costruisce assieme al proprio cliente trame di significati, nuove consapevolezze e nuove possibilità.

Nella relazione come aiuto si entra dentro il campo di coscienza assieme all’altro e si attraversa con l’altro la radura di significati possibili, facilitando nel cliente uno sguardo diffuso, accogliente e partecipe sulle cose, provando a percepire “come” si posiziona l’occhio dentro le esperienze che viviamo. Alle volte si tratta “solo” di lasciare che le cose si mostrino per quello che sono. L’accoglienza di ciò che ha da venire, è un esercizio  di ospitalità non semplice, perchè è incontro autentico con parti a noi sconosciute. Quante volte ci accade ad esempio in una giornata, di avere uno sguardo diffuso sulle cose, capace di accettarle proprio nel modo in cui le troviamo, senza volerle cambiare? E’ molto difficile scegliere di lasciarle stare lì, nel modo stesso in cui esse ci appaiono alla vista. Siamo spesso tentati di possederle, modificarle, trasformarle. Non è scontato questo esercizio minuzioso della resa: imparare ad abitare la distanza, osservare da una certa inclinazione il mondo. Lasciare che la realtà sia. Dentro di noi ed intorno a noi. In questo “tirocinio dello sgombero” facciamo un esercizio non proprio semplice, che ha la qualità dell’Attesa.

Una tensione vigile, viva, direi vibrante, pronta a ricevere l’Anima delle Cose ( Hillman, la chiama Hichness. La ciascunità delle cose). Allora in questo spazio arriva il respiro del volto dell’altro, non sempre scontato, o visto. Appare, e può essere osservato in ogni sua piegatura. Oggi c’è così poco tempo per dare tempo, e così poco spazio per fare spazio! C’è l’ombra della sindrome da per tutto, c’è da arrivare in fretta al risultato, c’è il programma da svolgere, il prodotto da finire, l’uniformità sotto cui nascondere in fretta la differenza. Perchè non favorire allora l’allenamento alla discesa, al distanziamento, all’obliquità di sguardo? Il lavoro pedagogico-educativo non è rivolto alla patologia delle relazioni, ma alla valorizzazione degli elementi positivi, alla loro integrazione. Promuovere l’ascolto dei vissuti percepiti, in relazione ad un’esperienza con i figli ad esempio, orienta i genitori ad avere consapevolezza rispetto alla provenienza emotiva che passa “dentro” quel sistema: “quale è l’effetto che fa” : ai figli, ai genitori e cosa accade a quel sistema familiare, sia sul piano della consapevolezza nel qui e ora, sia sul piano della responsabilità dei legami e dei valori del progetto educativo che si sceglie, o non sceglie di perseguire.

Oggi una parte di professionisti è convinta che la famiglia abbia bisogno di un “esperto” ad orientarla. Uno dei risultati più evidenti e più dannosi di questo appiattimento della cultura pedagogica, è senz’altro quello di aver reso i genitori, degli “oggetti” e non dei “soggetti” della reciprocità educativa; questo approccio non ha fatto alto che far sentire sempre più inadeguati i genitori, e dipendenti dall’esperto di turno. La relazione come aiuto, chiede invece pari dignità: vi è un ritrarsi da ogni pretesa di possesso della verità, in quanto condizione sine qua non, per avvicinarsi all’ alterità dell’altro. Vi è un rinunciare ad un sapere intrusivo, dare sempre all’altro la possibilità di essere. Solo così l’alterità, all’ombra dello stupore, del silenzio e dell’ascolto, si può manifestare e dischiudere. Sento molto forte oggi, la spinta a cercare di educare i nostri passi, al mistero che ci circonda.

E’ possibile ancora ricostruire forme di devozione all’apparire delle cose? Imparare senza timore l’andatura incerta? Esercitarsi nell’arte del sottrarsi e non solo dell’arrampicarsi in verticale?

M. Trevi (1983) tenta di formulare così, i termini della sua esperienza di ascolto, nella relazione con l’altro: «l’esperienza dell’ascolto: una delle migliori definizioni di questa disposizione – laddove siamo capaci di superare l’ubris e l’arroganza della certezza oggettivante- è quella secondo cui, l’ascolto è l’atteggiamento di un conoscere che si mette a disposizione del suo oggetto e per questo, non lo possiede mai in maniera definitiva» (p. 26)4.

Mi è caro ribadire l’assoluta necessità di un ascolto empatico e non intrusivo dentro la relazione come aiuto, come suggerisce la testimonianza dello psicoanalista W. F. Bion, tratta dal suo libro “Letture Brasiliane5:

«Un paziente una volta mi disse che se io avessi smesso di parlare e lo avessi ascoltato suonare il piano, egli sarebbe stato capace di insegnarmi qualcosa; ma non c’era nulla che egli potesse fare, perché io avevo una mente chiusa, una mente occlusa da tutti i pregiudizi di una attività umana molto limitata: il parlare» e che: «..invece di provare a fornire una brillante, intelligente, bene informata illuminazione per chiarire i problemi oscuri, suggerisco di procurare una “diminuzione della luce”. Un penetrante raggio di oscurità, il reciproco del faro.L’oscurità sarebbe così assoluta da raggiungere un assoluto vuoto luminoso. Così che, se un qualche oggetto esistesse, per quanto, si mostrerebbe molto chiaramente»

(W.F. Bion, pp. 36-37, op.cit.).

(  Estratto dalla mia Relazione condivisa al Convegno A.Pro.Co. Di Pietrasanta, sulla Relazione come Campo di Coscienza, 5-6 /12/15 )
 
Piccola Bibliografia:
1C.Furletti (2011), Relazione come Aiuto, Ed.Clandestine, Massa.
2Muscatello C.F., Scudellari P.: Per un’etica dell’ascolto. Da Heidegger a Bion. In Comprendere (Volume 10, pp. 101-108).
3Rovatti A. ( 1989). Le parole della divergenza, in Aut Aut n.234/1989. Heiddeger e la poesia
4Trevi M. (1983): “Sé: soggetto, oggetto, orizzonte”. In: “Il narcisismo”, a cura di N. Ciani, Roma. Boria.
5Bion W. F. (1976): “Letture brasiliane”. Firenze, Guaraldi

 

 

( La Foto del Post è della mia cara amica Elena Bertone,  Parco di San Rossore – mattino )