Questa marginalità consapevole…

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“C’era sole o vento, in quella giornata indimenticabile?”[ G. Bachelard ]

La Bellezza è fatta di dettagli, di gesti semplici.Sono i gesti quotidiani i più eroici, spesso i più ripetitivi. Scrive Bobin: ” Lavare il bucato, perchè il bambino si senta leggero, fiducioso, anche nei vestiti freschi e puliti”.

Non è facile arrivare alla frescura che abita al centro del petto, non è facile arrivare questa fonte nostra, più intima. Per arrivarci occorre sentire se ci sono davvero. Qui e Ora. Come è il mio respiro, che stato d’animo ho, cosa naviga o cosa galleggia. Cosa va a fondo e cosa vola in me. Ora.

Dunque, un po’ di silenzio. Sedersi discretamente “nella propria nicchia ferita” – come scrive Paolo Mottana, “riacquisendono la marginalità più come un dono che come un danno“.

Qualche giorno fa sono stata a vedere un documentario sulla poetica dei fratelli Bertolucci. L’eredità della Bellezza lasciata dal padre Attilio, la presenza di Pasolini e della sua visione, l’intimità della campagna emiliana, la semplicità dei gesti dei contadini. Giuseppe Bertolucci è raccontato come il regista della “marginalità consapevole”. Ovvero, quello dei due fratelli, che ha portato il suo occhio a raccogliersi sul bordo silenzioso di quella nicchia. Uno sguardo capace di osservare ancora il tremore del mondo, le sue fessure sconsiderate, la palpitazione della luce.

Il non Visibile, non si incontra. L’invisibile invece si affaccia, si mostra, si svela. E’ l’Anima delle cose.

Ma occorre essere disposti a sottrarsi un po’, ad arretrare, a fermarsi sulla Soglia delle cose, per andare verso la loro Fonte. Verso quella frescura che è al centro del petto anche delle nostre giornate, sul volto della persona che ci passa accanto, e che quasi -distratti- a tratti, perdiamo.

Una pedagogia della “fonte”, della “sorgente”, dove l’acqua non scorre sempre chiara ed in un moto prevedibile, ma si esprime attraverso quell’ombra o quel vortice che sostiene la sua spinta, il suo gettarsi nel mondo. Per accogliere la Bellezza occorre un arretramento, un rallentamento.

Qualche mese fa, in un bellissimo posto del Casentino da me molto amato, a Romena, sono rimasta colpita dal colore della terra appena arata. Ho camminato lungo il bordo dei campi arati; a lungo ho sostato seduta su una piccola pietra, che era “casualmente” lì: al fianco di un campo aperto. Quella pietra, mi pro-vocava – mi “chiamava” a sè. Ricordo di essermi seduta e di avere sentito che quella pietra su cui sostavo, mi permetteva una piccola resurrezione, una trasfigurazione in qualcosa di più grande, che aveva legame con quella pietra e con quelle zolle rosse, aperte davanti agli occhi, e al tempo stesso con il mondo. Quanta Bellezza in quella dialettica fra intimità ed immensità: la terra, il cielo, le nuvole, il vento. Quante zolle e quante pietre, racchiuse là dentro!

Quella visione ricordo che ebbe un potere di guarigione potente su di me. Eppure mi aveva attraversato l’incertezza del sostare. L’incertezza di “poterlo fare” questo atto umile e coraggioso del fermarmi. Ho dovuto combattere un po’ per permettermi di cedere, per decidermi a stare in una quieta contemplazione delle cose intorno a me. Ancora ricordo quella “soglia” ostica, caparbia. Poi mi è rimasto il Dono di avere ospitato quel tempo, e quelle zolle rovesciate e dolenti davanti ai miei occhi, pronte a bere direttamente dal cielo.

C’è una corrispondenza circolare fra il cielo e la terra, fra la notte e il giorno, fra la singolarità e l’infinito. Anche stamani, soffiando giocosamente piccole mongolfiere di vapore con il mio respiro nel mattino freddo, ho visto illuminarsi di un sorriso nuovo il volto di mia figlia ed ho sentito forte  il desiderio di compiere più spesso, queste rotazioni minime sul mio tempo.

Fermarmi, sostare. Attendere con fiducia che l’Invisibile faccia capolino, potergli inviare la mia risposta….