La nostra cultura ci consegna ancora molto pre-giudizio su l’emozione della Rabbia. Ancora passa il messaggio che la Rabbia è un’emozione “sbagliata” , ” da evitare ” e che c’è ben poco da esplorare, anzi è un’emozione che va “eliminata e disciplinata”. Invece non esistono emozioni “sbagliate”, da “eliminare”, ma esistono emozioni più facili ed emozioni più complesse, da integrare. Possiamo educarci ad abitare le nostre emozioni, anche la rabbia, passando dalla spontaneità, all’autenticità. Di fronte ad un conflitto ci può capitare di reagire in modo incontrollato ( spontaneità) esprimendo così vecchi automatismi, appresi negli anni. Oppure possiamo reagire evitando la rabbia, razionalizzandola, giudicandola sbagliata, operando così una sorta di “an-estesia”emotiva. Oppure possiamo esprimerla con autenticità, trovando tutta una serie di indicazioni molto preziose, su ciò di cui abbiamo bisogno, in quel dato momento, dentro un conflitto.
La nostra reazione di rabbia può diventare “alleata” alla nostra dimensione più autentica. La rabbia come via di conoscenza ed integrazione quindi, non come violenza ed eliminazione. Ascoltare cosa si muove dietro la rabbia significa aiutare la sofferenza a trovare una voce. Per poterlo fare occorre che ci sia -come dice Alice Miller – ” un testimone soccorrevole” , dentro alla nostra Rabbia. Ovvero quella capacità di raggiungere la nostra rabbia sul suo terreno, non con l’intento di fermarla o giudicarla, ma con l’intento di seguirla in silenzio, di riconoscerla.
E’ un terreno di grande vitalità la rabbia, dove si mobilitano tantissime energie. Spesso è l’ultima strada che ci resta da percorrere, dopo che tutte e altre ci sono sembrate bloccate o inutili. Pertanto negare la nostra rabbia non riconoscendole diritto di esistenza, ci procura una grande mutilazione. Eppure da un terreno così importante, spesso cerchiamo la fuga o ne vogliamo prendere al più presto le distanze. Facciamo di tutto per coprirla, o fingere che non esista, come se fosse una cosa negativa, distruttiva, di cui aver paura. Anche la rabbia -come tutte le stagioni della vita- si esprime con un suo ciclo: ha un’inizio, un’evoluzione e una fine. Alle volte è feroce e distruttiva, totalizzante e faticosa, difficile da gestire perchè esplode senza controllo, all’improvviso e l’intensità è tale, perchè è la voce di un’impotenza, di una paura, di un dolore sottostante molto forte. Riconoscere la rabbia -come quella dei bambini quando accade- ci permette di trovare uno sbocco evolutivo, al blocco emotivo che vi soggiace. Jean Bergeret scrive ” ...la rabbia è pulsione di autoconservazione: Non si è destinati ad uccidere l’altro, non è la morte dell’altro che ci interessa, ma la nostra stessa sopravvivenza“. Questa stessa forza diventa aggressività e piacere di far soffrire l’altro, solo quando non riusciamo ad integrarla dentro di noi. Qualche giorno fa un bambino mi ha disegnato delle montagne aguzze e dei dinosauri con i denti molto affilati e mi ha detto che dalle montagne usciva un gran fuoco, come di vulcano. Un fuoco che correva, ” senza sapere dove andare”.
Riconoscere l’emozione della rabbia non è facile, la ricerca può passare anche per l’erranza, la perdita, lo smarrimento. Non si sa più bene dove andare, è vero. Diventare il testimone soccorrevole del nostro fuoco che non sa dove andare, ci permette tuttavia di recuperare noi stessi e la nostra storia; ci permette di andare incontro a ciò che abita dietro la rabbia. Possiamo così incontrare anche la storia di tutti quei mobili che da anni arredano la casa della nostra anima. Ed in questo luogo, in questa casa, possiamo sostare un poco.
Ci racconta Etty Hillesum nel suo Diario: ” …bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche parole che ci sono necessarie per riconoscerci e per riconoscere cosa c’è nell’altro. Questa nuova forma di espressione può maturare nel silenzio“. Sono davvero poche le parole, le parole essenziali, quando il dolore, la paura dell’abbandono o l’impotenza, ricevono la visita del testimone soccorrevole. Poche parole, essenziali, non sempre facili da trovare. Un silenzio, come di brace. Il pianto. Espressione di quell’attraversamento così doloroso, di quella latitanza che ci ha fatto arrivare oltre le montagne infuocate, oltre il nostro individualismo, salvandoci così dalla freddezza dei nostri cuori, dal calcolo prosciugato e arido dei nostri pensieri di rabbia e di vendetta. L’assenza delle parole, si fa custode di quello smarrimento in cui i nostri occhi hanno vagato in quella tumultuosa alternanza di emozioni , fra folgore e oscurità e ci consegna alla limpidezza commuovente della rivelazione.
Dalla sopravvivenza violenta, alla disarmata speranza. Le parole sigillate dentro la rabbia, agite dentro la rabbia, vengono abbracciate dal silenzio e acquistano così il loro significato più sacro. Sono tracce. Allora possono sgorgare nuovamente arcane risonanze dalla nostra anima, parole bagnate di nostalgia e di poesia verso quei mobili pieni di polvere che sono stati lasciati per anni in disparte, nelle loro ferite di abbandono o di trascuratezza. La speranza è nutrita anche delle cose che abbiamo vissuto e che vengono integrate proprio, attraverso il processo che la rabbia apre.
Occorre fare spazio al silenzio per comprendere le ragioni del fuoco. Per imparare a decifrare che cosa è nostro e che cosa è dell’altro.Occorre fare spazio al silenzio per ricercare i bisogni sommersi ed inascoltati. Così la rabbia diventa occasione di prossimità autentica con noi stessi.Da qui è possibile osservare il profilo delle montagne aguzze, dei denti appuntiti e riaprire un colloquio con la storia.
Con occhi aperti che di nuovo sognano di ritornare nel mondo [ l'altro mondo, direbbe Bachelard ], in cui siamo immersi.